Oggi vi voglio parlare di un episodio tratto dalla mia esperienza di maestra alla scuola materna e cioè di un bambino di 4 anni, chiamato per l’occasione Carlo che, durante un gioco di gruppo, ad un certo punto è letteralmente “schizzato via” correndo fuori dalla porta della sezione. Ovviamente doveva succede in un momento piuttosto caotico! Infatti fuori c’erano i genitori che erano venuti a prendere i loro bambini. Così, preoccupata che uscisse dalla scuola, sono uscita dalla sezione per andare a cercarlo lasciando gli altri bambini con un’altra maestra di sezione che era passata di lì per caso per prendere del materiale. Immaginate che situazione di confusione!
Dopo aver girato di qua e di là ho trovato Carlo che stava nascondendo con rabbia la sciarpa sotto il mobile e così l’ho preso e siamo rientrati in sezione. Lo spavento procurato per questo gesto e la preoccupazione che possa verificarsi ancora, stavano amplificando la tentazione di sgridare in malo modo Carlo. L’altra insegnante, che di fatto non aveva visto cosa era successo prima, considerando la gravità del comportamento, ha sgridato severamente il bambino. Io avendo visto come erano andate le cose e immaginando cosa fosse successo dentro di lui, ho tentato di mantenere la calma e di parlare con lui nel modo più calmo possibile.
Ma per capire bene cosa è successo vi devo raccontare che gioco stavamo facendo.
Il gioco del cieco
Eravamo tutti in cerchio e stavamo facendo per la prima volta un gioco nuovo: un bambino doveva avere la sciarpa sugli occhi in modo da non vedere e un altro bambino più grande doveva accompagnarlo in giro per la sezione. Carlo, che vuole sempre essere tra i primi, ha subito manifestato il desiderio di fare questa esperienza. Al tentativo di allacciare la sciarpa sui suoi occhi però, è successo il misfatto! Carlo è schizzato via fuori dalla sezione, andando a inserire la sciarpa sotto l’armadio.
Cosa è successo quindi?
Secondo voi perché Carlo si è comportato così? Questa è la mia interpretazione: Carlo, preso da una paura talmente intensa, non ha saputo più controllarsi schizzando via, senza poter riflettere, per poi fuori, dopo aver corso un po’, pensare di eliminare l’oggetto fonte di tale emozione incontrollabile, la sciarpa. L’espressione e il tentativo determinato di metterla sotto l’armadio in modo che non si veda più secondo me è davvero eloquente.
Cosa ho fatto in qualità di maestra
Avendo dato questa interpretazione dell’accaduto e sentendomi un po’ responsabile dell’accaduto, ho messo un po’ da parte lo spavento e la rabbia e sono riuscita a mantenere la calma e a mettermi a parlare in tranquillità con Carlo. Mi sono avvicinata a lui dicendogli che non volevo sgridarlo ma solo capire cosa era successo. L’ho preso vicino a me e gli ho chiesto come mai è uscito in quel modo dalla sezione e, non sapendomi dare una risposta adeguata, gli ho chiesto se si era spaventato per il buio che aveva visto con la sciarpa sugli occhi. Carlo mi ha risposto di sì e ha confermato anche il fatto che si era arrabbiato molto con la sciarpa. Gli ho detto, così, che può succedere di reagire così quando si ha paura, ma ho sottolineato, però, che ha fatto una cosa sbagliata nell’uscire in quel modo dalla sezione perché ha spaventato molto la maestra che deve sempre sapere dove sono i bambini. Gli ho suggerito, se dovesse succedergli ancora, di dire alla maestra con le paroline che non vuole fare una certa cosa se gli fa paura.
Cosa non ho fatto in qualità di maestra
La reazione di Carlo si sarebbe potuta prevenire o, comunque, contenere, se avessi avvisato che quel gioco avrebbe potuto far paura perché a volte il buio spaventa i bambini. Avrei potuto anche dire che era possibile anche chiedere di togliere la sciarpa se non si voleva continuare il gioco e che, se si voleva invece provare ad essere coraggiosi, si poteva tenere forte la mano del compagno che era li apposta per guidarci.
Questo avrebbe permesso a Carlo di controllare meglio l’emozione e, quindi, grazie all’intervento del pensiero, di assumere un comportamento più adeguato.
Quali osservazioni fare?
Richiamare al rispetto della regola non sempre è sufficiente
Di fronte ad un comportamento sgradito o scorretto, spesso, vi è la tentazione di reagire sgridando il bambino richiamandolo all’importanza del rispetto della regola. Sebbene, questa sia una fase fondamentale, occorre però anche tentare di comprendere ciò che ha spinto il bambino a comportarsi in quel determinato modo. I bambini così piccoli difficilmente sanno dare una risposta realistica e, quindi, spetta all’adulto dare una lettura di quanto accaduto in modo da non far sentire “cattivo” il bambino. Assumere il più delle volte un atteggiamento comprensivo ma fermo, aiuta il bambino a sentirsi capito e sostenuto nel processo di apprendimento delle regole e aiuta l’insegnante nel prevenire ulteriori comportamenti simili.
Dietro ad un comportamento c’è sempre un’emozione.
Nel caso rappresentato l’emozione in questione è la paura. La paura è un’emozione molto intensa che, spesso, si nasconde dietro ai comportamenti dei bambini. Se troppo intensa può inibire un comportamento portando cioè la persona ad uno stato di “congelamento” o travolgerlo completamente e portandolo ad agire senza pensare, come nel nostro caso che ha portato il bambino alla fuga senza particolare meta, trovata solo dopo durante la fuga stessa.
Il pensiero aiuta a regolare le emozioni
Tramite il pensiero è possibile gestire al meglio le proprie emozioni. L’anticipazione da parte della maestra di ciò che può succedere in una determinata esperienza, aiuta i bambini ad utilizzare il pensiero per autoregolarsi.
Anche l’insegnante deve riconoscere e gestire le proprie emozioni
Trovarsi di fronte ad un bambino che vìola delle regole, magari anche ripetutamente, può mettere l’insegnante davvero in difficoltà e può far sperimentare emozioni intense e spiacevoli. Queste emozioni, se non riconosciute e gestite correttamente possono interferire negativamente nel processo educativo.
Conclusioni
Anche i comportamenti apparentemente banali come quelli di Carlo portano con sé degli spunti di riflessione psicologica. Per l’insegnante diventa importante tenerne conto per aggiungere qualità al proprio lavoro e per facilitare quei processi di apprendimento che si rendono possibili solo all’interno di una relazione buona con la figura di riferimento. Non essendo semplice né comprendere ciò che sta dietro a determinati comportamenti, né controllare le proprie emozioni negative, quali ad esempio la rabbia e la paura, soprattutto se intense, diventa importante esercitarsi gradualmente in questo.
Dott.ssa Serena Costa, psicologa dell’infanzia (serenacosta.it@gmail.com)
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9 Commento
francesca
Ciao Serena. Ho letto il tuo articolo, che ho trovato molto interessante, ma se posso permettermi, in alcune cose mi trovi in disaccordo. Spero che questo possa essere uno spazio anche per un confronto civile.
Prima di tutto, se veramente tutto è andato come hai scritto (e non lo dubito per mancanza di fiducia, voglio solo sottolineare che spesso nel trascrivere in maniera narrativa le esperienze, alcune sfumature possono cambiare l’interpretazione del testo), non condivido il modo che hai avuto di “scoprire” cos’era successo. Chiedere ai bambini di mettere in parola le loro emozioni è molto difficile e spesso si rischia che loro ci dicano quello che vogliamo sentire. In pratica, secondo me, facendo una domanda chiusa, stimoli il bambino ad assecondarti, specie se non sarebbe autonomamente in grado di giustificarsi in altro modo. Come fanno quelle mamme, difronte ad un bambino che non vuole andare a scuola. “Perchè non vuoi andare a scuola, con chi hai litigato?” Un bambino che non sa dire “ho una sindrome abbandonica” o “non reggo le frustrazione della vita sociale”, risponderà con il primo nome che ricorda. In secondo luogo, credo che come insegnante hai sì il dovere di capire le emozioni di un bambino, ma hai in primo luogo il dovere di tutelarlo. Se la prossima volta, forte della tua “comprensione”, deciderà di nascondere l’oggetto che gli fa paura sulla strada, che farai? Tu hai scelto la richiesta di spiegazioni affiancato ad un amorevole richiamo alle regole. Io avrei scelto un altorevole richiamo alla sicurezza (perché di questo si tratta), affiancato ad una richiesta di spiegazioni (magari condotta in altro modo). Che ne pensi? ciao e buon lavoro
serena
Gentile Francesca, ti ringrazio molto per il commento. Certamente questo è uno spazio di confronto e, quindi, sono ben accetti anche commenti un pò critici.
Concordo assolutamente sul fatto che un dovere dell’insegnante sia quello di tutelare il bambino ed è proprio a questo proposito che affiancarsi al mondo interno del bambino è molto importante per accrescere la sua disponibilità alla comprensione e rispetto della regola. Il rischio altrimenti è che si scatenino quelle dinamiche di opposizione e provocazione che le insegnanti conoscono bene. Il richiamo al rispetto della regola da parte dell’insegnante deve comunque essere fermo e determinato.
Rispetto al rischio di condizionare le risposte del bambino, ritengo che esso ci sia, ma solo se la modalità di porsi dell’adulto non è corretta. Un bambino risponde assecondando il volere dell’adulto di riferimento quando teme le conseguenze di ciò che ha fatto o di ciò che vorrebbe dire oppure quando per lui è importante l’approvazione dell’adulto. In questo caso, però, la domanda è stata posta per offrire comprensione e non in tono indagatorio o minaccioso. Il preamobolo di non voler sgridare il bambino va proprio in questa direzione, cioè creare quel clima relazionale aperto e accogliente. I bambini sin da piccoli hanno delle idee ben precise su ciò che accade loro ed è compito dell’adulto accoglierle ed elaborarle, con le dovute attenzioni. In quale altro modo intendevi porre le domande?
gabriella
ho letto quanto ti ha scritto Francesca, e la tua risposta.Io, francamente non so quale delle due vie avrei preso..(per istinto, penso, forse la via della sgridata), ma mi rendo conto benissimo che non sarebbe stata la più opportuna..Un’altra cosa che mi son chiesta è:cosa sarebbe successo se quella collega non fosse passata di lì,per prendere del materiale…Menomale che è passata…!
Ma indipendentemente da questo, quello che dice Francesca, lo condivido anch’io in parte, perchè credo che un bambino, nella sua furbizia,anche se vive un momento di forte emozione, trova sempre la risposta per giustificare il suo agire,e,ponendosi a lui, magari in modo troppo tenero, ne possa aprofittare,,adottando per il futuro strategie più sottili (magari per attirare l’attenzione, o altro..),per cui, non pensi che avresti potuto anzittutto chiarire, sempre in modo garbato, ma deciso, che il suo comportamento è stato sicuramente scorretto, – E QUINDI NON DEVE RIPETERSI- pur lasciandogli tuttavia la possibilità di spiegarsi e di chiarire i perchè del suo gesto,cosa che appunto poi hai fatto.Non so se mi sono spiegata.Ciao e buon lavoro!la mamma
francesca
Credo che abbiamo un modo un po’ diverso di vedere la regola. In questo caso non si tratta di riprendere un comportamento “sgradito” o “scorretto” (cito le tue parole), ma pericoloso, per sé per gli altri (se non ci fosse stata la collega avresti dovuto scegliere chi esporre al pericolo della tua assenza).
Per il resto capisco il tuo approccio, ma nella mia ventennale esperienza ho notato che a volte non serve il timore o la voglia di compiacere (che comunque un bambino ha sempre, più o meno spiccata, per l’adulto di riferimento) per “suggerire”, se mi passi il termine, la risposta ad un bambino. A volte basta che il bambino non abbia voglia/bisogno/piacere di rispondere, altre volte che non sappia risponderti perché non riesce a comprendere o a verbalizzare quello che prova. E’ chiaro che l’insegnante può aiutare anche in questo, e tutto il filone sull’educazione alle emozioni di cui la letteratura più recente è ricca lo dimostra. Ma l’anticipare una risposta, chiedendo conferma, non è per me la strada migliore. Un conto è un bambino che ti dice “la sciarpa mi faceva paura”, e allora tu puoi precisare che era la sensazione di non vedere che faceva paura e non la sciarpa. Un conto è interpretare un gesto in maniera totale. Non so se riesco a spiegarmi.
Esempio, realmente successo più volte (se ti capita fai una prova): un bambino con un segno in una posizione che non vede (tipo un graffio sul viso). Tu chiedi “cos’è successo?”. A meno che l’episodio non sia stato eclatante, nella maggioranza dei casi ti risponderà “non so”. Tu incalzi e chiedi “ti hanno graffiato?”. Dopo un momento di dubbio ti risponderà sì o no. E credimi che già a questo punto, una parte delle risposte sarà inventata. A questo punto chiedi “chi ti ha fatto male?”. Bene, lo stesso bambino che ti ha risposto di non sapere cos’era successo (e poniamo che ancora non lo sappia), in qualche raro caso ti dirà nessuno, in qualche caso non so (che comunque significa che qualcuno gli ha fatto male), e in qualche caso ti dirà il primo nome che ricorda. Provare per credere.
Io non ho la soluzione in tasca, ma in questi casi preferisco prendere il bambino a tu per tu e provare a parlare di quello che è successo, riducendo al minimo le domande e non suggerendo mai una soluzione. Poi può essere che tu non riesca a cavare un ragno dal buco, come si suol dire. Ma se avrò una risposta sarò certa che sia del tutto spontanea. Anche fare un disegno può aiutare, perché ti fa tastare il contesto emotivo della situazione, o fare un gioco in cui i protagonisti rivivano l’evento (sullo stile dell’ Attachment Story Completion Task per capirci). E infine, ma questo è poco accademico, si può anche lasciar perdere. Accontentarsi di aver fatto capire che il comportamento era potenzialmente pericoloso ma che questo non influisce sul rapporto, sulla fiducia e sulla stima reciproca è già un gran passo. Forse è proprio un difetto di noi maestre andare sempre alla ricerca di un perché…
Serena
Gentili Francesca e Gabriella, se ci si mette nei panni di un bambino il concetto di pericolo di fronte all’emozione di una paura intensa, passa in secondo piano. E’ un desiderio adulto pensare che un bambino non si metta nel pericolo solo perché noi gli diciamo di non farlo. Magari segue le nostre indicazioni per paura delle conseguenze ma ciò che deve importare a livello educativo è che il bambino interiorizzi la regola. In un momento di forte emozione, come avete detto anche voi, alcuni bambini non sanno mettere delle parole e dei pensieri e, quindi, è compito dell’adulto aiutarli in tal senso. Nel campo emotivo alcuni bambini hanno bisogno di quello che il Dott. Giuseppe Nicolodi chiama “offerta psichica”, cioè del pensiero adulto offerto al bambino per far si che lui stesso possa crearsi il suo di pensiero. Nel caso dell’articolo, il mio intervento sarebbe stato più efficace e forse meno ambiguo se avessi semplicemente affermato “ho capito cosa è successo, hai avuto paura”.
Francesca
È chiaro che il pericolo passa in secondo piano (perché spesso poi non è neanche percepito come tale). Ê a me adulto che non riesce a passare in secondo piano, ma credo che le nostre differenti posizioni siano anche frutto del diverso background di formazione e di esperienza. Credo che la tua preparazione in ambito psicologico ti dia un’arma in più nella scuola, se starai attenta a scindere le due professionalità. Grazie per il confronto e buon lavoro.
Serena
Grazie a te per la preziosa discussione. Serena
gabriella
mi piace proprio sentire le varie opinioni messe così bene a confronto.Ovviamente non sono all’altezza di entrare in certi dettagli,ma è sempre interessante l’argomento dell’educazione.Un caro saluto dalla mamma